|
Riflessioni sulla via del ritorno - Agosto 2003 Spesso si sogna un viaggio per una vita per poi cogliere l’occasione al volo e partire. Un viaggio come questo è in realtà un insieme di tanti viaggi. C’è il fascino del raid, del mondo che scorre da un finestrino ma anche quello di vivere la quotidianità come fermarsi per un tè in una casa di contadini uigury; c’è poi la curiosità per la storia che trasuda dalle moschee o dai tumuli di sassi di città distrutte un tempo capitali ma anche la voglia di capire come cambia la società anche nella periferia del mondo dove le notizie dei media sono solo echi lontani. Per chi è veneto, ed oramai quasi veneziano d’adozione, Marco Polo incarna lo spirito del curioso intelligente, un po’ sfrontato da credere sempre nella buona stella e pronto, per la “nobile” causa di cercar guadagni (non viaggia per diletto ma da buon commerciante) a gettarsi a capofitto nell’ignoto. Certo il paragone è un po’ forzato, a distanza di oltre otto secoli il mondo è diventato terribilmente piccolo, ciò che si visita è oramai noto o almeno conosciuto ma il fascino resta. D’altronde questa fetta del mondo, l’Asia Centrale, è rimasta nell’oblio del novecento al riparo della cortina di ferro sovietica opposta al gigante cinese; pochi viaggiatori se ne sono avventurati e noi italiani, abituati al turismo comodo, non l’abbiamo (fortunatamente…) ancora consumata con il vociare delle coppiette scaricate dall’onnipresente “pulman-ariacondizionata-toilette-granturismo-hotelcinquestelle-guidaparlanteitaliano” davanti al Registan di Samarcanda. Forse chi l’ha visitata qualche anno fa’ era il nostalgico “compagno” emiliano in visita culturale alla sezione del Pcus di Tashkent con l’occhio lucido per i progressi del Comunismo nell’assicurare fertilità ai campi di cotone (mentre il Lago d’Aral moriva…). Pretendere di viaggiare come un Chatwin del 2003 per me era pretendere troppo e mi sarei perso la possibilità di condividere con gli ottimi compagni di viaggio le sensazioni provate. Il ritorno a casa è l’occasione per rimettere insieme i cocci di un viaggio, un po’ come si fa con un oggetto a noi caro; spesso sfuggono i precisi passaggi (a questo compito altri avranno provveduto con gli onnipresenti Diari di Viaggio). Io mi accontento di ordinare in modo sparso immagini, sensazioni, profumi che una volta colti sono rimasti impressi nella mente. Chi leggerà le prossime righe forse non riuscirà a capire; chi ha viaggiato con me sicuramente riassaporerà emozioni vissute. Cosa ricordo? Il discutere di Matteo con dei camionisti pakistani alla frontiera come amici all’osteria, ennesimo esempio di come sia necessario conoscere per giudicare e non fidarsi degli stereotipi dei mass media che criminalizzino un popolo dalla straordinaria dolcezza. E come non ricordare il vociare, gli odori, i visi del mercato del bestiame di Kashgar, così vero da proiettarmi realmente in un’altra epoca, magari quella nella quale i nostri vecchi, solo mezzo secolo fa, si recavano a vendere il toro amorevolmente allevato dalla famiglia patriarcale contadina. Spesso però si tratta di sensazioni talmente inaspettate da sembrare irreali, come sentire una canzoncina di Tiziano Ferro gracchiare dalla radio di un taxista uzbeco che “vola” lungo l’autostrada che ci porta dalla fertile valle della Fergana (“la valle dei meloni”) alla capitale Tashkent. Anche il mio fisico di occidentale iperprotetto ritorna a sensazioni “vere” quando si trova alle prese con il mal di montagna in una yurta nel Xinchiang o dentro ad un bus granturismo “olandese” con vetri sigillati e senza aria condizionata mentre attraverso il deserto del Karakum consumandomi nei 45 gradi di un’aria secca che ti toglie il respiro. Adesso i flash si susseguono a getto continuo, come una bottiglia di vino frizzante stappata maldestramente. Come posso dimenticare quei ragazzini che si allenano alla boxe a pugni nudi lungo una strada di Osh, città uzbeka assegnata da Stalin al Kirghizystan. Già, spesso ciò che si ricorda è ciò che nasce così su due piedi, si improvvisa e si incontra per caso; chi pensava di assistere ad una preghiera notturna nella Moschea Blu di Istanbul, un intruso occidentale in una atmosfera mistica carica di millenni…certo spesso la fortuna aiuta gli audaci o forse solo chi vuole vivere un viaggio in ogni momento, anche dopo essersi sorbito oltre 750 kilometri di strade turche in un solo giorno. Per ultimi affiorano i ricordi più personali, privati ed intimi per quanto lo possano essere quelli condivisi comunque con altri 6 compagni di viaggio. Il bellissimo cocktail delle donne centroasiatiche, incrocio tra la razza russa dell’”ultimo invasore” con quella turca, così simile alla mediterranea, ed alla fierezza delle genti della steppa arrivate al seguito di Tamerlano e Gengis Khan. Certo, incarnare l’occidentale ricco aiuta a far sognare chi si aspetta poco dal futuro in quest’area ancora alle prese dalle contraddizioni del crollo dell’impero sovietico ma mi illudo ci sia di più, ci sia cioè, dietro a quegli occhi verde chiaro come l’acqua marina o scuri come braci, ancora un po’ di ingenuità che menti e cuori puliti sanno ben trasmettere. Se non avessi provato anche sensazioni sgradevoli forse il mio viaggio non sarebbe stato completo. Certo non parlo delle seccature alle frontiere, seppure il comportamento dei cinesi abbia realmente fatto capire cosa significhi l’arroganza del potere, ma delle contraddizioni che nel 21° secolo il mondo non è riuscito a superare come il tremendo contrasto tra le case rabberciate e “l’atmosfera da Albania” che si respirava a Konye Urghenc e lo sfarzo irreale ostentato da un “dittatore democratico” nella capitale del Turkmenistan. Resta in fondo il capitolo Iran, così difficile da capire per un occidentale per il modo opprimente con il quale una teocrazia reprime una cosa così sublime com’è la bellezza di una donna o il mostrare il proprio corpo che danza. D’altronde quello che resta alla fine, al di la della montagna di foto e di queste righe gettate sulla carta come granelli di sabbia su un tavolo, sono le espressioni, i visi, gli atteggiamenti che tanti popoli così diversi mi hanno impresso nella mente. Mi illudo siano le stesse emozioni che il grande viaggiatore veneziano, al quale immodestamente mi ispiro, abbia provato mentre rientrava al porto di Venezia a bordo di una galea (e non su di un traghetto ipertecnologico come il sottoscritto). Per finire, come regalo che faccio innanzitutto a me stesso, resta il gesto semplice ma di una dolcezza irreale che una ragazzina di Samarcanda ci ha donato regalando a noi “poveri” occidentali il pane appena acquistato al mercato; è proprio vero, certi gesti ti spiazzano perché ti fanno riflettere dell’aridità della nostra “civiltà” occidentale. |